L’articolo che pubblichiamo con l’autorizzazione dell’autore e stato pubblicato alcuni giorni fa da “L’Avvenire di Tripoli”. Esso e un interessante excursus sull’origine di alcuni cognomi degli ebrei tripolini.
GABRIELE V. RACCAH
ISRAEL (Anno XXIII –N. 21)Roma- Firenze
23 Adar 5698 / 24 Febbraio 1938
L’articolo che pubblichiamo con l’autorizzazione dell’autore e stato pubblicato alcuni giorni fa da “L’Avvenire di Tripoli”. Esso e un interessante excursus sull’origine di alcuni cognomi degli ebrei tripolini.
Nel suo studio, su Giado, pubblicato nell’antologia “Ben Israel”, l’insigne storico Slouschz, occupandosi della Sinagoga da lui visitata in quel centro del Gebel Nefusa, riferisce di aver veduto dei candelabri di ottone di eta millenaria che erano stati ritrovati seppelliti in quel Tempio. Questo ci indica come dai tempi piu antichi dovette esistere in Tripolitania un artigianato libico del metallo.
Inoltre una tradizione, che ancora persiste, dice che nell’ Uadi Serus’ vi era, nel XIII secolo, una citta’ che aveva un grande mercalo molto frequentato ove si contavano ben settantacinque botteghe di orefice, gestite da Ebrei. Un vecchio ebreo del Gebel Nefusa ci assicurava di aver veduto in quella vallata le rovine di questo Suk, fra i ruderi del quale gli indigeni delle cabile vicine, trovavano spesso utensili di lavoro che un tempo avevano servito agli argentieri ed agli orafi del luogo. Nel M. E. venivano importati a Venezia candelabri d’argento e di ottone che provenivano da Serus e che erano per uso delle sinaoghe e per le cerimonie religiose presso le famiglie ebree del Ghetto di quella citta. Tale commercio continuo` anche nei secoli dopo con Pisa e Livorno. I candelabri allora si fabbricavano a Tripoli.
La citta di Serus era sede, in quei lontani tempi, di una grande comunita ebraica che diede dei dotti celebri chiamati “Gaonin” ed e descritta dall’insigne geografo e storico arabo, El Bekkri, come centro berbero di primaria importanza. E da Serus che provengono molte famiglie ebrei di Tripoli.
E poi interessante notare che buona parte degli orafi israeliti della nostra citta, e che oggi hanno botteghe in Suk Es-Siaga e in Trik El Halga, portano il cognome di Serussi, cioe essi sarebbero i discendenti di quelle genti giudee che dopo la distruzione di quella citta berbera, avvenuta sulla fine del 1500, emigrarono nei centri della costa.
Fu un Serussi che, col suo socio Haggiag, rabbrico nel 1926 una spada dall’elsa d’oro che fu donata dalla popolazione tripolina al Duce, in occasione della sua visita alla colonia. E furono gli stessi orafi che foderarono in oro sbalzato due denti di elefante regalati dalla cittadinanza al Principe Umberto, nella sua visita del 1921. Questa usanza di regalare denti di elefante ai grandi personaggi era in uso fin dall’eta punica e romana in Libia. Era seguita anche in tutti i secoli passati e sotto ogni dominazione.
I discendenti degli antichi orafi di Serus seppero sempre mantenere con tenacia e intelligenza la secolare arte dei loro padri. Narra lo storico Padre Costanzo Bergna che i Daj di Tripoli affidavano agli ebrei il compito di fondere la polvere e i grani d’oro che venivano importati dal Sudan, per battere le “sultaninie” che servivano per il tributo annuale al sultano di Istanbul.
Molti dei gioielli d’argento e d’oro che usavano le donne degli Harem dei sultani di Costantinopoli, erano provenienti dalle botteghe degli artigiani ebrei di Tripoli, che in questa lavorazione andavano famosi in tutto il bacino del mediterraneo.
L’artigianato dell’oreficeria fu in passato cosi importante da dare origine ad un cognome: Assaig, che significa orafo, e puo benissimo corrispondere al cognome italiano “Orefice” tutt’ora portato da parecchie famiglie di israeliti della Penisola.
Non meno importante fu in passato l’arte della bulinatura dell’argento, esercitata anche questa in gran parte da ebrei. Tale arte ha dato origine al patronimico “Naccas” che significa incisore.
Famoso fu nei secoli scorsi l’artigianato della lavorazione del ferro. Beniamino Iosef Israel, conosciuto col nome di Beniamino Il, noto geografo polacco, che visito la Tripolitania verso il 1848, scrive nei suoi diari che il villaggio di Amrus nei pressi di Suk el Giuma, ai suoi tempi era in gran parte abitato da fabbri ferrai ebrei – come lo e oggi – e che i loro prodotti (martelli, falci, tosatrici per pecore, forbici ecc.) venivano esportati anche nella lontana Nigeria dalle carovane annuali. Anche questa industria ha dato origine ad un cognome: Haddad, che significa fabbro e che corrisponde a quello italiano di Barzilai che in ebraico significa appunto “fabbro”. E da notare che quasi nessuno degli Haddad di Tripoli esercita oggi l’arte del fabbro, ma e rimasto alle famiglie il cognome che ricorda il mestiere dei loro antenati.
Notevole fu ed e l’artigianato del rame, dell’ottone e del bronzo. La fabbricaizone dei mortai di bronze anche oggi e esclusivamente dei mortai di bronze anche oggi e esclusivamente neile mani di artigiani ebrei, mentre il rame viene, e veniva anche in passato, lavorato da artigiani arabi, armeni e di altri paesi. Comunque, tale industria dovette essere assai importante in antico, avendo essa dato origine al cognome “Nhaisi”, che signifia “ramaio”. Attualmente a Tripoli non c’e nessuno di questo nome che eserciti tale mestiere.
Ne meno, antica ed importante e l’industria del l’avorio, ed anche di questa scrive il dotto Beniamino II, dando interessanti particolari sulla gente che la esercitava. Anche gli artigiani del legno furono un tempo numerosissimi a Tripoli e da costoro derivo il cognome “Nagiar”, cioe falegname. Accanto a questo mestiere vi era. Quello dello spaccalegna, oggi scomparso, ma che diede origine al cognome “Hattab”, portato ancora da varie famiglie tripoline e dell’interno.
Grande fama aveva una volta l’arte della tintoria, oggi in completa decadenza. I tintori attuali si dedicano soltanto alla colorazione di tessuti grossolani di cotone, a mezzo dell’indaco e di qualche altro colore di anilina, importato dall Germania.
Nei tempi aurei di quest’arte, che era esercitata tanto da arabi che da ebrei, le stoffe colorate venivano esportate nel Fezzan, a Gadames e in altre plaghe della Tripolitania, per essere vendute aglie indigeni.
I colori in quel tempo venivano tutti estratti dalle piante.
I baracani e i filati di cotone greggio si tingevano di giallo con la corteccia di melagrana, dalla quale si estraeva tale colore, che serviva anche per i cuoi.
E noto che nel 1902 il Re Vittorio Emanuele III, nel ricevere il dottor Ignazio Carrieri, gli chiese notizie sullo stato in cui versava l’industria dei colori vegetali per la tintoria in quel tempo.
Ed anch’essa ha dato origine al cognome “Sabbag”, cioe tintore, portato ancora oggi da diverse famiglie.
Scomparsa e presso gli ebrei di Tripoli l’arte della medicina, che in antico veniva esercitata specialmente dalle donne, ed i cui canoni venivano tramandati di generazione in generazione. Per lo piu le ricette erano tratte dalle formule galeniche. Il nome di Galeno da Pergamo si trova infatti spesso citato nei vecchi manoscritti ebraici di medicina. In relazione all’arte medica, nacque fra gli israeliti della Tripolitania il cognome, tutt’ora esistente, di “Dauan”, che significa “medico“.
Fino a qualche anno fa viveva a Tripoli una donna che portava il soprannome di “Tabiba”, la medichessa; essa era chiamata a curare non soltanto gente ebrea ma anche araba.
Ebbe importanza, una volta, fra le industrie minori, quella delle funi e delle corde, fabbricate generalmente con l’alfa e lo sparto. Nel passato i prodotti di tale attivita venivano esportati a Venezia, Livorno e Marsiglia, dando luogo a scambi assai fiorenti che durarono fino a qualche anno dopo il 1900. Tale commercio, come dice lo Slouschz, era nelle mani degli ebrei Zliten e Homs.
Da questa industria derivo il prenome di “Habbal”, cioe fabbricatore di corde, nome che puo trovare corrispondenza nel casato italiano “Funaro”. Senza dubbio gli Habbal di oggi, che non mancano a Tripoli, devono il loro cognome ai loro antenati che esercitavano questo mestiere, oppure si dedicavano a tale commercio con le citta predette che in cambio davano conterie, oggetti di vetro, maioliche, carta, legname, ecc. ecc.
Il mestiere dell imbianchino e ricordato nei cognomi ebraici “Labban”, quello del “cestaio”. Nel prenome “Abutbeka” e quello sapone nel patronimico “Sabban“.
Si noti pero che quest’ultimo cognome e originario da Granata, da dove l’industria della saponeria venna importata a Tripoli con le immigrazioni ebraiche della fine del 1400 e dei primi anni dell 1500. Oggi fra le varie famiglie “Sabban” di Tripoli non vi e nessun membro che eserciti tale mestiere, ne in quelle dei “Labban” e degli “Abutbeka” vi sono oggi imbianchini e cestai.
Nel passato, e per una lunga sequela di generazioni, un’arte od un mestiere venivano tramandati di padre in figlio, anzi le famiglie allora erano. Gelosissime delle prerogative che derivavano dall’esercizio di una determinata occupazione artigiana: da qui l’origine di tutti questi cognomi con i quali si voleva esaltare le occupazioni tradizionali dei membri di una stessa famiglia, nobilitando cosi la santita del lavoro.
Questo fatto trova un interessante corrispondenza anche nei riguardi dell’antico artigianato non solo d’Italia, ma anche di tutti gli altri paesi d’Europa.
Ed oggi vi e ragione di grande soddisfazione nel vedere con quanta amorosa cura l’Istituto dell’Artigianato Libico, voluto dal Governatore Balbo, esplichi la sua utilissima azione per sorvegliare, proteggere e dare incremento all’artigianato locale, che vanta un passato fiorentissimo e che per le attuali utilissime provvidenze sta per risorgere in tutta la sua bellezza per il bene economico di questa nostra Quarta Sponda.
GABRIELE V. RACCAH
ISRAEL (Anno XXIII –N. 21)Roma- Firenze
23 Adar 5698 / 24 Febbraio 1938
L’articolo che pubblichiamo con l’autorizzazione del-l’autore e stato pubblicato alcuni giorni fa dal “L’Avvenire di Tripoli”. Esso e un interessante excursus sull’origine di alcuni cognomi degli ebrei tripolini.
Nel suo studio, su Giado, pubblicato nell’antologia “Ben Israel”, l’insigne storico Slouschz, occupandosi della Sinagoga da lui visitata in quel centro del Gebel Nefusa, riferisce di aver veduto dei candelabri di ottone di eta millenaria che erano stati ritrovati seppelliti in quel Tempio. Questo ci indica come dai tempi piu antichi dovette esistere in Tripolitania un artigianato libico del metallo.
Inoltre una tradizione, che ancora persiste, dice che nell’ Uadi Serus’ vi era, nel XIII secolo, una citta che aveva un grande mercalo molto frequentato ove si contavano ben settantacinque botteghe di orefice, tenuto da israeliti. Un vecchio ebreo del Gebel Nefusa ci assicurava di aver veduto in quella vailata le rovine di questo Suk, fra i ruderi del quale gli indigeni delle cabile vicine trovavano spesso utensili di lavoro che un tempo avevano servito agli argentieri ed agli orafi del luogo. Nel M. E. venivano importati a Venezia candelabri d’argento e di ottone che provenivano da Serus e che erano per uso delle sinaoghe e per le cerimonie religiose presso le famiglie ebree del Ghetto di quella citta. Tale commercio continuo anche nei secoli dopo con Pisa e Livorno. I candelabri allora si fabbricavano a Tripoli.
La citta di Serus era sede, in quei lontani tempi, di una grande comunita ebraica che diede dei dotti celebri chiamati “Gaonin” ed e descritta dall’insigne geografo e storico arabo, El Bekkri, come centro berbero di primaria importanza. E da Serus che provengono molte famiglie ebrei di Tripoli.
E poi interessante notare che buona parte degli orafi israeliti della nostra citta, e che oggi hanno botteghe in Suk Es-Siaga e in Trik El Halga, portano il cognome di Serussi, cioe essi sarebbero i discendenti di quelle genti giudee che dopo la distruzione di quella citta berbera, avvenuta sulla fine del 1500, emigrarono nei centri della costa.
Fu un Serussi che, col suo socio Haggiag, rabbrico nel 1926 una spada dall’elsa d’oro che fu donata dalla popolazione tripolina al Duce, in occasione della sua visita alla colonia. E furono gli stessi orafi che foderarono in oro sbalzato due denti di elefante regalati dalla cittadinanza al Principe Umberto, nella sua visita del 1921. Questa usanza di regalare denti di elefante ai grandi personaggi era in uso fin dall’eta punica e romana in Libia. Era seguita anche in tutti i secoli passati e sotto ogni dominazione.
I discendenti degli antichi orafi di Serus seppero sempre mantenere con tenacia e intelligenza la secolare arte dei loro padri. Narra lo storico Padre Costanzo Bergna che i Daj di Tripoli affidavano agli ebrei il compito di fondere la polvere e i grani d’oro che venivano importati dal Sudan, per battere le “sultaninie” che servivano per il tributo annuale al sultano di Istanbul.
Molti dei gioielli d’argento e d’oro che usavano le donne degli Harem dei sultani di Costantinopoli, erano provenienti dalle botteghe degli artigiani ebrei di Tripoli, che in questa lavorazione andavano famosi in tutto il bacino del mediterraneo.
L’artigianato dell’oreficeria fu in passato cosi importante da dare origine ad un cognome: Assaig, che significa orafo, e puo benissimo corrispondere al cognome italiano “Orefice” tutt’ora portato da parecchie famiglie di israeliti della Penisola.
Non meno importante fu in passato l’arte della bulinatura dell’argento, esercitata anche questa in gran parte da ebrei. Tale arte ha dato origine al patronimico “Naccas” che significa incisore.
Famoso fu nei secoli scorsi l’artigianato della lavorazione del ferro. Beniamino Iosef Israel, conosciuto col nome di Beniamino Il, noto geografo polacco, che visito la Tripolitania verso il 1848, scrive nei suoi diari che il villaggio di Amrus nei pressi di Suk el Giuma, ai suoi tempi era in gran parte abitato da fabbri ferrai ebrei – come lo e oggi – e che i loro prodotti (martelli, falci, tosatrici per pecore, forbici ecc.) venivano esportati anche nella lontana Nigeria dalle carovane annuali. Anche questa industria ha dato origine ad un cognome: Haddad, che significa fabbro e che corrisponde a quello italiano di Barzilai che in ebraico significa appunto “fabbro”. E da notare che quasi nessuno degli Haddad di Tripoli esercita oggi l’arte del fabbro, ma e rimasto alle famiglie il cognome che ricorda il mestiere dei loro antenati.
Notevole fu ed e l’artigianato del rame, dell’ottone e del bronzo. La fabbricaizone dei mortai di bronze anche oggi e esclusivamente dei mortai di bronze anche oggi e esclusivamente neile mani di artigiani ebrei, mentre il rame viene, e veniva anche in passato, lavorato da artigiani arabi, armeni e di altri paesi. Comunque, tale industria dovette essere assai importante in antico, avendo essa dato origine al cognome “Nhaisi”, che signifia “ramaio”. Attualmente a Tripoli non c’e nessuno di questo nome che eserciti tale mestiere.
Ne meno, antica ed importante e l’industria del l’avorio, ed anche di questa scrive il dotto Beniamino II, dando interessanti particolari sulla gente che la esercitava. Anche gli artigiani del legno furono un tempo numerosissimi a Tripoli e da costoro derivo il cognome “Nagiar”, cioe falegname. Accanto a questo mestiere vi era. Quello dello spaccalegna, oggi scomparso, ma che diede origine al cognome “Hattab”, portato ancora da varie famiglie tripoline e dell’interno.
Grande fama aveva una volta l’arte della tintoria, oggi in completa decadenza. I tintori attuali si dedicano soltanto alla colorazione di tessuti grossolani di cotone, a mezzo dell’indaco e di qualche altro colore di anilina, importato dall Germania.
Nei tempi aurei di quest’arte, che era esercitata tanto da arabi che da ebrei, le stoffe colorate venivano esportate nel Fezzan, a Gadames e in altre plaghe della Tripolitania, per essere vendute aglie indigeni.
I colori in quel tempo venivano tutti estratti dalle piante.
I baracani e i filati di cotone greggio si tingevano di giallo con la corteccia di melagrana, dalla quale si estraeva tale colore, che serviva anche per i cuoi.
E noto che nel 1902 il Re Vittorio Emanuele III, nel ricevere il dottor Ignazio Carrieri, gli chiese notizie sullo stato in cui versava l’industria dei colori vegetali per la tintoria in quel tempo.
Ed anch’essa ha dato origine al cognome “Sabbag”, cioe tintore, portato ancora oggi da diverse famiglie.
Scomparsa e presso gli ebrei di Tripoli l’arte della medicina, che in antico veniva esercitata specialmente dalle donne, ed i cui canoni venivano tramandati di generazione in generazione. Per lo piu le ricette erano tratte dalle formule galeniche. Il nome di Galeno da Pergamo si trova infatti spesso citato nei vecchi manoscritti ebraici di medicina. In relazione all’arte medica, nacque fra gli israeliti della Tripolitania il cognome, tutt’ora esistente, di “Dauan”, che significa “medico“.
Fino a qualche anno fa viveva a Tripoli una donna che portava il soprannome di “Tabiba”, la medichessa; essa era chiamata a curare non soltanto gente ebrea ma anche araba.
Ebbe importanza, una volta, fra le industrie minori, quella delle funi e delle corde, fabbricate generalmente con l’alfa e lo sparto. Nel passato i prodotti di tale attivita venivano esportati a Venezia, Livorno e Marsiglia, dando luogo a scambi assai fiorenti che durarono fino a qualche anno dopo il 1900. Tale commercio, come dice lo Slouschz, era nelle mani degli ebrei Zliten e Homs.
Da questa industria derivo il prenome di “Habbal”, cioe fabbricatore di corde, nome che puo trovare corrispondenza nel casato italiano “Funaro”. Senza dubbio gli Habbal di oggi, che non mancano a Tripoli, devono il loro cognome ai loro antenati che esercitavano questo mestiere, oppure si dedicavano a tale commercio con le citta predette che in cambio davano conterie, oggetti di vetro, maioliche, carta, legname, ecc. ecc.
Il mestiere dell imbianchino e ricordato nei cognomi ebraici “Labban”, quello del “cestaio”. Nel prenome “Abutbeka” e quello sapone nel patronimico “Sabban“.
Si noti pero che quest’ultimo cognome e originario da Granata, da dove l’industria della saponeria venna importata a Tripoli con le immigrazioni ebraiche della fine del 1400 e dei primi anni dell 1500. Oggi fra le varie famiglie “Sabban” di Tripoli non vi e nessun membro che eserciti tale mestiere, ne in quelle dei “Labban” e degli “Abutbeka” vi sono oggi imbianchini e cestai.
Nel passato, e per una lunga sequela di generazioni, un’arte od un mestiere venivano tramandati di padre in figlio, anzi le famiglie allora erano. Gelosissime delle prerogative che derivavano dall’esercizio di una determinata occupazione artigiana: da qui l’origine di tutti questi cognomi con i quali si voleva esaltare le occupazioni tradizionali dei membri di una stessa famiglia, nobilitando cosi la santita del lavoro.
Questo fatto trova un interessante corrispondenza anche nei riguardi dell’antico artigianato non solo d’Italia, ma anche di tutti gli altri paesi d’Europa.
Ed oggi vi e ragione di grande soddisfazione nel vedere con quanta amorosa cura l’Istituto dell’Artigianato Libico, voluto dal Governatore Balbo, esplichi la sua utilissima azione per sorvegliare, proteggere e dare incremento all’artigianato locale, che vanta un passato fiorentissimo e che per le attuali utilissime provvidenze sta per risorgere in tutta la sua bellezza per il bene economico di questa nostra Quarta Sponda.